Il principale problema del mercato del lavoro? La difficoltà a trovare i talenti. Può sembrare strano questo dato considerato che in alcuni Paesi, fra cui l’Italia, è ancora elevato il tasso di disoccupazione, ma per le imprese è sempre più difficile trovare personale specializzato e competente in ambito STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). Pochi i laureati così come i lavoratori che già possiedono queste competenze. E questi ultimi sono prevedibilmente molto contesi dalle aziende, che cercano di sottrarli alla concorrenza offrendo paghe migliori e ulteriori benefit.
Il quadro è complicato da un ulteriore parametro: oggi non basta più uno stipendio più elevato della media per convincere un talento a restare in azienda o a sottrarlo alla concorrenza. Bisogna offrire benefit e flessibilità, soprattutto sulle modalità di lavoro, consentendo a tutti di poter lavorare in maniera agile, anche da remoto. Ma c’è anche un altro aspetto: la cultura aziendale. Ci sono ambienti che sono considerati tossici dai lavoratori per vari motivi che possono spaziare da una scarsa cultura della collaborazione a un approccio troppo timido sulle politiche di decarbonizzazione o sull’inclusività in azienda. Sono questi parametri che spesso fanno la differenza, ancora più di una busta paga più generosa. Qui entra in gioco l’employer branding, quell’insieme di pratiche per mostrare ai potenziali lavoratori quanto sia attrattiva la propria azienda e allo stesso tempo per fidelizzare chi è già stato assunto e coinvolgerlo maggiormente.
FAANG, i maestri dell’employer branding
Quando si parla di FAANG si fa riferimento alle principali big tech in termini di fatturato: Facebook (oggi Meta), Amazon, Apple, Netflix e Google. Queste aziende sono in grado di attirare lavoratori come miele non solo perché sono considerate solide dal punto di vista economico ed estremamente innovative. A renderle dei magneti per chi cerca occupazione è l’immagine che sono riuscite a dare di sé: ambienti giovani, moderni, innovativi e stimolanti. Un’immagine che si sono costruite negli anni e che ha permesso loro sia di avere successo nei confronti del pubblico, sia di essere appetibili per i talenti. Pensaci un po’: quando Google parla dei suoi uffici, sottolinea sempre il clima, la presenza di ampie zone relax dove potersi sedere, rilassare, lavorare ma anche giocare. E dove potersi recare a qualsiasi ora del giorno e della notte, ricevendo pure pasti gratuiti. Chi non vorrebbe lavorare in un simile posto?
La strategia di Employer Branding di Microsoft: ecco come è passata da Evil Company a un luogo da sogno
Nonostante il suo enorme successo commerciale, Microsoft per anni non è stata mai vista di buon occhio da molti utenti che, pur utilizzando i suoi prodotti, hanno a lungo criticato le sue politiche molto aggressive, spesso sfociate in cause miliardarie contro l’Antitrust. Da quando Bill Gates ha lasciato l’incarico, però, il colosso di Redmond ha rivoluzionato il suo approccio, soprattutto internamente. Satya Nadella è riuscito a trasformare Microsoft non solo dal punto di vista del business, traghettandola con successo nel monto cloud, di cui oggi è fra i leader, ma anche rendendola “cool”, all’interno e all’esterno. Un esempio di grande successo di employer branding interno è la realizzazione della nuova sede di Milano. Nonostante quella precedente fosse bellissima e nuovissima, è stato scelto di cambiarla dopo pochi anni e portandola al centro della metropoli, nei pressi del Cimitero Monumentale, nonché vicino alle zone più trendy della città, come Corso Come (dove si trova anche Eataly) e la sempre più popolare via Paolo Sarpi, la Chinatown meneghina.
Al contrario della precedente sede, nella periferia, questa è comodamente raggiungibile dai mezzi pubblici, ma mantiene le caratteristiche che avevano guidato lo sviluppo dell’altra: assenza di postazioni fisse, aree relax. Ma soprattutto, un posto dinamico, che accoglie non solo i lavoratori, ma offre spazi aperti per il pubblico, dove si effettuano presentazioni di prodotti, workshop, conferenze stampa. Il bello è che i dipendenti non sono nemmeno obbligati ad andare in sede (e questo accade da prima della pandemia), e possono lavorare da ovunque. Quante persone costrette al vecchio mantra 9-18 farebbero cambio? Sicuramente tantissime, anche senza bisogno di incentivi economici. Anche solo per non sentirsi rimbrottati per un ritardo dovuto magari ai mezzi di trasporto pubblico.
Employer branding: anche i grandi sbagliano. Gli errori errore di Apple e Google
Apple è una delle aziende di maggiore successo al mondo e negli anni ha mostrato tanti alti e bassi, spesso legati proprio alle strategie di employer branding. Fu fondata da Jobs e Wozniak, ma il primo fu fatto fuori dopo alcuni anni dal management. E da lì è iniziato un grande declino. Anni dopo, la decisione di riprendersi Steve Jobs e nominarlo CEO ha dato i suoi frutti: l’azienda ha ripreso a correre, a guadagnare quote di mercato e ha stravolto il mondo tech con l’iPhone prima e l’iPad dopo. La sua sede a Cupertino è oggi una vera e propria mecca, e sono tanti gli appassionati che vanno a visitarla. Nonostante questo, Apple ha passato anche dei momenti difficili coi suoi dipendenti dopo la pandemia, quando ha chiesto loro di tornare in presenza. Cosa che non è piaciuta a chi ci lavorava dentro e in molti, anche fra le figure di spicco, hanno risposto con un secco no, sostenendo che se Apple non avesse cambiato idea, avrebbero cercato una nuova occupazione. Costringendo l’azienda a fare un passo indietro. Il fatto è che non si è trattata di una contrattazione privata: una simile notizia non poteva che rimbalzare su tutti i principali giornali a livello globale, fatto che ha un po’ annebbiato l’immagine luccicante che l’azienda della Mela dava di sé. Sia esternamente, sia internamente. E non sono mancati concorrenti che hanno cercato di farsi belli con l’errore, mostrando come loro – pur meno potenti e conosciuti – lasciavano ai loro dipendenti la libertà di scegliere da dove lavorare.
Employer branding: perché non puoi farne a meno
Oggi se hai un’impresa non puoi sottrarti dall’elaborare qualche strategia di employer branding. Sia per trovare nuove figure che ti permettano di crescere, sia per mantenere le figure chiave che già lavorano con te. Se anche non hai ambizioni di crescita, infatti, sai bene che sostituire un valido collaboratore è difficile e richiede tempo prima che sia formato a dovere e possa dare il meglio. Allo stesso tempo, perdere un dipendente è facilissimo, anche se non sempre tutti lo realizzano. È vero che per anni la filosofia italiana è stata un po’ all’antica, e chi trovava il “posto fisso” difficilmente lo lasciava. Ma le nuove generazioni hanno scardinato questa mentalità e sono disposti a rinunciare a soldi, e in parte anche alle passioni, se non trovano un ambiente a loro consono. Un esempio arriva dalla grande crisi della ristorazione: nonostante questo settore sia fra i più attivi e sia sempre più gli aspiranti chef, sono in tanti, anche fra gli stellati, a faticare a trovare nuove leve. Proprio perché ormai è chiaro che chi lavora in questo settore si troverà a fare sacrifici in un ambiente malsano, stressante, poco inclusivo e pure spesso malpagato. E se prima della pandemia la passione spingeva molti a continuare i sacrifici, con il ritorno alla normalità le persone hanno rivisto ambizioni e priorità. Non tutti i datori di lavoro, però, hanno ancora compreso questo cambiamento dal quale non si può tornare più indietro.
Fermati a riflettere
Ora che hai chiaro il concetto alla base dell’employer branding, ti consiglio di farti una domanda. Cosa posso fare per far sì che i miei collaboratori siano più felici (e produttivi?). E dopo questo, che immagine offro all’esterno? Se dovessi proporre una posizione, quanto sarebbe appetibile per un potenziale candidato? Le risposte non sono banali, naturalmente, e dipendono molto dal settore in cui operi (ovviamente se hai un punto vendita fisico, lo smart working è improponibile per i commessi, per fare un esempio), ma se fatichi a trovare persone, o noti un certo fuggi fuggi fra i tuoi assunti, vale sicuramente la pena di indagare le ragioni profonde, abbandonando quel vecchio modo di pensare che ti spinge a credere che l’entità della busta paga sia l’unica discriminante per un lavoratore.