OK, hai deciso di voler far crescere la tua azienda e di assumere i migliori talenti che puoi trovare in giro. Mettiamo per semplicità che il budget non sia un problema e che puoi permetterti di investire il necessario in iniziative di employer branding, sia interno sia esterno, e che hai già trovato la persona che le seguirà. Sei insomma pronto per partire. Manca solo un dettaglio. Definire qual è il punto di forza della tua azienda. O, più banalmente, dare una risposta a una domanda solo in apparenza semplice: perché una persona dovrebbe venire a lavorare da me?
Employer Branding: il primo passo è individuare i tuoi punti di forza
Spesso mi capita di avere a che fare con imprenditori che vogliono attirare più talenti per far crescere la propria azienda e si lamentano della difficoltà di trovarli. Sicuramente non è facile oggi trovare persone preparate, soprattutto in ambiti molto specifici, dove le competenze scarseggiano e le aziende fanno a gara per coinvolgerli. La prima domanda che faccio a questi imprenditori è la seguente: “Cosa metti sul piatto?”. Nella maggior parte dei casi, la risposta è disarmante: “un contratto regolare, pagamenti puntuali e sono disposto a offrire uno stipendio anche superiore alla media di mercato”.
Questo è anche il motivo per cui faticano più di altri ad attirare le persone giuste. Un contratto regolare, con pagamenti sicuri alla fine del mese, non sono un plus, sono il minimo indispensabile. La paga superiore al mercato, di contro, può essere un plus, ma da sola non basta. Sono infatti finiti i tempi in cui il posto fisso era la massima aspirazione della maggior parte dei lavoratori. La pandemia ha cambiato la prospettiva, e ci vuole ben altro, come dimostra il fenomeno delle grandi dimissioni, che ha interessato figure a ogni livello dell’organizzazione, dai semplici impiegati agli ingegneri chiave. Oggi, soprattutto i più giovani, quelli della Generazione Z, cercano altro.
Le ambizioni della Gen Z (e non solo): la flessibilità
Flessibilità, valori, stimoli. Possiamo sintetizzare così i desideri delle nuove generazioni, ma anche di tanti Millenials e non solo. Flessibilità, intesa come la possibilità di fare smart working. E per smart working intendo quello vero, che non prevede la necessità di andare in ufficio in giorni prestabiliti. Lavorare due giorni alla settimana da casa non è smart working, è lavoro da remoto, e nemmeno a tempo pieno. E non attira più di tanto le persone, tanto che le aziende più illuminate, dopo aver inizialmente fatto simili proposte, hanno cambiato idea e hanno deciso di lasciare totale libertà ai propri dipendenti. Del resto, a meno che ti serva una persona allo sportello, cosa cambia se uno sviluppatore lavora da casa, da una nave da crociera, da una villa a Bali o saltando da un Paese all’altro ogni poche settimane? L’importante è che faccia bene il suo lavoro e molti talenti preferiscono fare i nomadi digitali, vivere in un perenne viaggio, senza però rinunciare a lavorare e senza arrangiarsi a cercare una nuova occupazione a ogni spostamento. Ovviamente, se vuoi portare a bordo figure tanto libere, devi ripensare l’organizzazione del lavoro, di tutti: il vero smart working ti impone di ripensare l’approccio. Di rinunciare a eventuali manie di controllo “di persona”: no, non potrai avere la soddisfazione di vedere i tuoi dipendenti chini tutte le 8 ore previste sulla scrivania. Non potrai sapere cosa stanno facendo. E, lasciatelo dire, non ti deve interessare. Ti cambia qualcosa se giocano a GTA, guardano una serie su Netflix o si fanno un bagno al mare, per lo meno sino a che raggiungono gli obiettivi concordati nei tempi previsti? Non deve mancare controllo, naturalmente, ma il controllo si deve spostare sul raggiungimento dei risultati, non su come li raggiungono e in quali orari sono davanti alla scrivania. Anche perché ti svelo un segreto: spesso, i dipendenti che vedi impegnati davanti allo schermo stanno facendo tutt’altro, e tirano fuori il foglio Excel solo quando passi alle loro spalle e puoi vedere il contenuto del loro display
Le ambizioni della Gen Z (e non solo): gli stimoli
Quando ti parlo di stimoli non mi riferisco solo a quelli economici, che sono sì importanti, ma non tanto quanto credi. Se vuoi portarti a casa un bravo sviluppatore non basta pagarlo più di quanto prende attualmente: devi convincerlo che lavorando con te potrà continuare a imparare nuove cose, lavorare su progetti complessi, sfidanti ma anche in grado di avere un impatto reale sulla vita delle persone. Aiutarle a risparmiare tempo, denaro o energia, o anche solo a vivere meglio. Questo può essere un esempio di stimolo, ma non è certo l’unico. Altri stimoli possono essere un ambiente di lavoro collaborativo e libero: Google, per esempio, inizialmente concedeva ai suoi sviluppatori 8 ore alla settimana da dedicare a progetti personali. Progetti che non dovevano necessariamente portare a risultati economici, né sul breve né sul lungo termine. Potevano tranquillamente essere fallimentari, e nessuno avrebbe avuto da dire. Inutile che ti dica che alcune delle migliori innovazioni di Google sono partite proprio da qui.
Un altro stimolo potrebbe essere ricercato nell’ambiente di lavoro. “Ma come? – dirai – mi hai appena detto che nessuno vuole più venire in ufficio”. In realtà non ho detto questo, ma che le persone cercano libertà. Anche di non venire in ufficio, se non quando proprio è necessario. Ma questo non significa che non devi avere una o più sedi fisiche. Tutt’altro: dovresti averne più di una, se le dimensioni della tua azienda te lo permettono, sparse geograficamente. Così, anche i nomadi se un giorno desiderano fare un salto in sede, potranno avere tutto quello che serve loro: caffè e snack, un ambiente dove scambiare opinioni, una sala riunioni ben attrezzata dove fare le videochiamate o le videoconferenze. Delle sale per incontrare partner e clienti. E perché no, delle zone relax, con biliardini, tavoli da tennis, videogiochi e non solo. Anche i nomadi digitali vorranno fare un giro in una simile sede, una volta ogni tanto.
Altri stimoli, infine, possono essere i benefit: vacanze aziendali, così da fare teambuilding, per esempio. Ma, forse ancora più importante, la dotazione: un computer e uno smartphone adeguati alle necessità; SIM gratuite per la connettività; display, auricolari o cuffie e webacam di ottimo livello, così da rendere più produttive le ore dedicate al lavoro.
Le ambizioni della Gen Z (e non solo): i valori
Puoi pagare tantissimo i tuoi dipendenti, ma ci sono aziende dove proprio non vorranno lavorare a nessun costo. In particolare, quelle che non si dimostrano inclusive o che fanno greenwashing, cioè promuovono iniziative sulla sostenibilità ambientale di facciata, non concrete. Ora, non ti dico che nella tua azienda devi mettere domani le quote rose o riempire i tetti delle tue sedi di impianti fotovoltaici, ma se non dimostri attenzione a questi temi, a partire dai tuoi annunci, non sarà facile attirare nuove figure di talento.
Se nell’annuncio specifichi che cerchi una segretaria per il dirigente, parti male. Così come se cerchi un maschio per il ruolo di dirigente. Inclusività naturalmente non significa dover cedere a tutte le mode del momento, incluse le più sgrammaticate: puoi evitare gli asterischi o lo scwha senza il rischio di essere considerato una persona terribile.
Conclusioni
Ti ho elencato quelle che oggi sono le caratteristiche che più attraggono i lavoratori. Non devi ovviamente averle tutte, sarebbe impossibile. Quello che vorrei trasmetterti con questo articolo è che prima ancora di fare employer branding, devi individuare quali sono i caratteri distintivi che puoi trasmettere dalla tua azienda e di come è lavorare al suo interno. Rispondere, insomma, alla domanda posta all’inizio: “Cosa metti sul piatto?”. Se non riesci a distinguerti, a trovare una caratteristica in grado di attrarre, prima di cercare talenti è meglio fermarti un momento e ragionare, insieme alla persone che già lavorano per te, su cosa vorrebbero. Cosa potrebbe renderli più felici e motivati. Se non ti concentri su questo, infatti, le tue attività di employer branding difficilmente avrebbero successo: sono le persone che lavorano con te i principali ambasciatori. E se non le soddisfi, il rischio non è quello di faticare a trovarne di nuove, ma di perdere le competenze che già hai in casa.